La lingua poetica di Campana sconvolge
l’ordine sintattico in vari modi: impasto fra le varie lingue che il
poeta conosceva (francese, spagnolo, tedesco, inglese, oltre al
latino e al greco, allora di norma per un italiano della sua
cultura); ripetizioni ossessive; frasi lunghe con il verbo rinviato
alla fine del periodo; termini di dubbia interpretazione (vedi ad
esempio l’uso quasi sempre polisemico della presposizione «per», o
l’ambivalenza di «o» in La Chimera), o che possono via via
intendersi come sostantivi o come forme verbali (ad es. «posa» o
«sosta» in La Verna); valanghe di versi la cui coerenza
sintattica si ottiene solo a costo di sacrificare ogni plausibile
significato, o viceversa (vedi l’inizio di Genova); costrutti
grammaticali incompiuti (vedi i tentativi autoparodici di tradurre la
«Visione di Grazia» in Genova), o addirittura spezzati (il
«meraviglioso attimo» in Pampa).
Tale contestazione
avviene dall’interno. Come è subito dimostrato dai testi meno
astrusi, o più «classici» dei Canti orfici (vedi ad es.
pagine con intenti quasi didattici quali quelle de Il Russo,
Dualismo, o L’incontro di Regolo, oppure componimenti
estremamente calibrati come Firenze (Uffizii) o Batte
botte), Campana, cioè, è un vigilissimo conoscitore delle
regole che egli bistratta, e non (come non pochi credettero, o
vollero far credere, per motivi forse non tutti dignitosi: penso al
gelosissimo Papini) uno che scrive male perché mezzo ignorante o del
tutto pazzo. Per dirla in modo un po’ dimostrativo, Campana, volendo,
avrebbe potuto benissimo sfruttare l’eredità di Carducci, e stendere
pure lui versi sì complessi, ma ineccepibili dal punto di vista del
rigore logico. Non a caso faccio il nome di Carducci: come ebbe a
dire il poeta di Marradi, la base dei suoi « giuochi di equilibrio»
poetici è costituita da un «cafonismo molto carducciano».
Cafonismo, dunque, ossia deliberata, e rivendicata come tale,
mancanza di rispetto («cafonismo») di norme stilistiche per altro
note e adoperate («carducciano»), ma adoperate appunto per essere
traviate, spinte allo stremo, oltre i propri limiti di
resistenza.
Il sovvertimento (che avviene, si noti, solo nella
pratica della scrittura, e mai in sede teorica) della sintassi è
solo una zona di una più vasta operazione di
esplorazione-svuotamento di tutti i modelli stilistici e retorici
successivamente tentati, ed è quindi da riallacciare a una
interrogazione rivolta alla lingua o al linguaggio in quanto tali,
che di questi modelli non possono mai fare a meno: parliamo e
pensiamo anche, e forse solo attraverso i codici di una determinata
«cultura»; il che vale addirittura per quanto riguarda i sensi, in
parte «plasmati» dall’educazione. È quindi in ballo anche la
realtà stessa, che non conosciamo mai in una esperienza diretta,
immediata, ma solo in processi interpretativi, che richiedono,
appunto, l’attivazione di modelli precostituiti, costruiti e non
innati.
La « follia » di Campana – che non può comunque essere
capita prescindendo da un contesto storico ancora fortemente segnato
dallo scientismo più ottuso, che prevedeva «cure» quali
l’internamento o gli elettroshock — non è quindi, comunque si
mettano le cose, un presupposto della sua poesia. È, semmai, un
punto di approdo, un territorio cui Campana arriva quando i suoi
tenacissimi sforzi per afferrare la realtà nella rete delle parole,
ineluttabilmente falliscono. Laddove Dante, costretto a rinunciare
all’umana favella in conclusione del Paradiso, trovava in Dio la
spiegazione ultima, Campana, figlio di un tempo in cui è stata
decretata dal prediletto Nietzsche la morte di Dio, attinge il nulla,
un cosmo vuoto di significato, un «Nessun Dio» (Pampa) che offre
ormai una libertà « sterminata » (vedi l’uso di tale aggettivo
all’inizio della Notte): una libertà, cioè, senza limiti, e quindi
assolutamente distruttiva, disgregatrice di ogni coerenza.
Campana
è fra i grandissimi poeti non solo italiani proprio per questa sua
scoperta, applicata e non astratta: priva ormai di un fine, la
tensione poetica e conoscitiva tende al nulla. Dall’Orfismo che
garantiva la possibilità di una Destinazione e di un Senso supremi,
ecco che la parola campaniana vacilla sull’orlo dell’Amorfismo,
dell’impossibilità di dare forma all’esperienza mistica : «Qual
ponte, muti chiedemmo, qual ponte abbiamo noi gettato sull’infinito,
che tutto ci appare ombra d’eternità?» (La Notte). Lo scacco
fatale della parola di fronte all’inafferrabile mistero del mondo (si
noti che l’interrogazione non aspetta risposta, ed è formulata da
noi «muti») era stato annunziato sin dalle prime sezioni della
Notte, e verrà ribadito ripetutamente nella raccolta, fra
l’altro nella frase conclusiva dello stesso testo: «Fuori è
la notte chiomata di muti canti, pallido amor degli erranti»
(il corsivo è mio). La «notte», che in Campana vuol dire poesia e
cioè, anche, pienezza d’esistenza, è «fuori», e il suo richiamo
condanna chi lo sente a uscire dalla propria vita, a buttarsi per le
strade, in una ricerca vana, perché sempre, i canti della notte
resteranno «muti», assenti da ogni canto umano.
Non è affatto
esagerato considerare allora la follia del poeta come una specie di
scelta, o per lo meno come l’unica via di scampo (se si esclude la
morte) per chi non si rassegna a «prendere la posa» del poeta (come
altri, non ultimo Ungaretti, farà senz’altro), per chi rifiuta di
fingere che i propri versi abbiano accolto e raffigurato l’eternità,
per chi non è riuscito, per eccesso di intransigenza etica, ma anche
per puro rigore logico, intellettuale ed epistemologico, a
sottoscrivere alle convenzioni (gli «inganni delle varie immagini»,
come si legge nella Notte) che permettono di distinguere il
vero dal falso, la realtà dal sogno, la normalità mentale dalla
pazzia. La follia, cioè, in definitiva prende la successione
dell’opera, a partire dal momento in cui l’opera diventa impossibile:
«È come l’Opera la suggestione», disse Campana a Pariani. Dove
«suggestione» significa, per il medico, delirio, patologia, ma per
l’ex poeta vuol dire creazione : «Sono contentissimo così, perché
così faccio tutto l’ordine del mondo». Ma creazione ormai
volutamente sottratta al controllo altrui: muta.
CHRISTOPHE MILESCHI
Il
Centro Studi Campaniani ha realizzato nel settembre 2001 una
importante ed elegante ristampa anastatica del manoscritto Il più
lungo giorno di Dino Campana. Questa edizione segue la edizione
che Archivi, d’intesa con Vallecchi, realizzò nel 1973 a due anni di
distanza dal ritrovamento del leggendario manoscritto smarrito da
Soffici nel 1913 e ritrovato per puro caso dalla vedova nella casa di
Poggio a Caiano. Questa seconda edizione esce in occasione del 30°
anniversario del ritrovamento del manoscritto, in limitatissine copie
numerate.
La presente iniziativa on line di Vallecchi contribuisce
a ricordare e celebrare il grande poeta di Marradi in occasione della
ricorrenza del settantesimo anniversario della sua morte (Castelpulci
1 marzo 1932).
Nella straordinaria e drammatica vicenda umana e
poetica di Dino Campana la consegna del manoscritto a Giovanni Papini
ed Ardengo Soffici nell’inverno del 1913, il suo smarrimento, le
insistenti quanto inutili richieste di Campana per riottenere il
manoscritto, sono avvolte nella leggenda e fanno parte del mito. Il
ritrovamento di Il più lungo giorno, avvenuto in modo banale,
casuale ed insperato per merito della vedova di Soffici nella casa di
Poggio a Caiano, ci ha restituito questa preziosissima prova
dell’impianto originario della poetica campaniana che i «cari
sciacalli del cupolone fiorentino» non avevano saputo ed in parte
non avevano voluto cogliere fino in fondo impegnati com’erano a «fare
le puttane alla serata futurista».
Campana aveva una cultura
straordinaria ed un culto per la perfezione filologica e questo fatto
è largamente testimoniato dalla tragicità con la quale vive la
perdita del manoscritto, tanto da far pensare fino al suo
ritrovamento che Il più lungo giorno contenesse una più alta
espressione della poesia campaniana rispetto ai Canti orfici,
soprattutto perché Campana, in questo contribuendo ad alimentare il
mito, affermava di aver ricostruito a memoria il testo del
manoscritto consegnato a Soffici e Papini. Fortunatamente così non è
stato, anche se come dimostrano alcuni testi che compaiono sia nel
manoscritto che negli Orfici lo smarrimento aveva costretto il
grande marradese a fare a meno dell’ultima stesura che aveva dovuto
effettivamente «ricostruire» a memoria prima di trasmettere a Luigi
Bandini, il suo amico marradese che cercherà senza successo di
convincere l’editore Vallecchi a pubblicarli, il testo per l’edizione
del 1914.
Dal punto di vista critico il manoscritto de Il più
lungo giorno è significativo perché rappresenta un importante
momento di avvicinamento all’elaborazione dei Canti orfici
nell’edizione marradese del 1914 stampata dalla tipografia Ravagli,
l’unica riconosciuta e accettata da Dino Campana: «la lezione
originale».
Personalmente mi ha sempre affascinato il fatto che
Scorci bizantini insieme a Morti cinematografiche
fossero i sottotitoli de «La Notte» ne Il più lungo giorno.
Cinematografia sentimentale era l’originario titolo de «La
Notte» a voler significare come la dimensione cronologica venisse
annullata nei picchi della Poesia di Campana, che uscendo dal tempo
si conquistava insieme all’universalità l’immortalità.
Campana è
indubbiamente mito e spesso i confini tra realtà ed immaginazione e
sogno sfumano a tal punto da consentire diversi e variegati modi di
interpretare e di farsi coinvolgere dalla lirica e dalla vicenda
campaniana fino a consentire le più impensabili trasfigurazioni
dello scorrere effettivo e del susseguirsi drammatico ed ironico
della breve vita del grande marradese. Sarebbe meglio continuare il
percorso senza voltarsi indietro ma noi, con Orfeo, preferiamo
volgere lo sguardo alla conoscenza anche a rischio di rimanere
impietriti. La vita dell’autore dei Canti orfici attraversa
fisicamente la nostra quotidianità e questa è una grande fortuna e
un vero privilegio che ci impone di corrispondere con uno sforzo di
sempre maggior conoscenza e di ulteriore produzione e divulgazione di
tutto quanto può servire ad offrire «Campana dal vivo» ad una
platea sempre più ampia di amanti della poesia alta e pura.
Il
colore, la musica, l’arte materica sono palpabilmente presenti in
Campana che li trasfigura in un simbolismo onirico ma nel contempo
autenticamente vero. La rivoluzione informatica ci offre un nuovo
modo coerente con la poesia dell’ultimo «grande poeta barbarico»
magico interprete di una terra dove si fondono i tratti di una antica
cultura etrusca con quella celtica per dar vita ad una poesia dove i
valori classici ed una grande modernità si compenetrano in una forma
ed in una purezza irripetibili.
RODOLFO RIDOLFI