Premiazione dei vincitori Concorso di Prosa Lirica
per ricordare il viaggio che “chiamavamo amore”
di Dino Campana e Sibilla Aleramo
“Io povero troviero di Parigi/ solo t’offro un bouquet di strofe tenere” sulle note di questi versi di Campana, recitati dal gruppo teatrale “Lo Spazio” di Modena si è conclusa sabato 8 ottobre la cerimonia di premiazione del 2° Concorso Nazionale di Prosa Lirica Inedita indetto per celebrare il centenario del viaggio che ” chiamavamo amore” di Dino Campana e Sibilla Aleramo.
Nell’introduzione il Presidente del Centro Studi Mirna Gentilini, dopo un accenno all’ intensa e travolgente storia d’amore, dai risvolti umani particolarmente dolorosi, sofferti, soprattutto per Campana, ha sottolineato l’originalità della prova con la quale si è inteso evidenziare una caratteristica dei Canti Orfici, parte in versi e parte in prosa , in cui le prose liriche costituiscono la parte prevalente . Una specificità che diversi concorrenti non hanno colto, ma che ha trovato una sua bella rappresentazione nei testi dei vincitori del Concorso .
L’origine antica del prosimetro, il riferimento ai diversi autori italiani e stranieri che nel passato ne hanno fatto uso, è stato oggetto del dotto intervento di Lamberto Lilli, presidente dell’Accademia “Il Fauno”che assieme al Presidente del Centro Studi, a Monia Balsamello ( poetessa e consulente editoriale), a Enrico Nistri ( Scrittore e saggista) e a Silvano Salvadori ( Critico d’arte)faceva parte della giuria .
Prima della consegna dei premi Silvano Salvadori ha chiesto ai vincitori di spiegare attraverso quali emozioni , quali esperienze siano giunti alla stesura dei testi di cui ha letto le motivazioni della giuria.
Francesco Fattorini di Bagno a Ripoli si è aggiudicato il primo posto con “E’ la stessa pietra?” testo che si distingue per l’originalità creativa, riportando, nell’assimilazione che l’autore fa con Dino, l’ombra fugace lasciata dagli amanti su una pietra dell’Appennino; a Giovanni Asmundo, giovane siciliano, residente a Venezia, è andato il secondo premio per l’opera ” A cera persa” , un lavoro interessante per l’argomento che riporta l’evento campani ano in una condivisione d’esperienza da parte dell’autore con modalità espressive nuove e convincenti, infine si è aggiudicata il terzo premio Cristiana Pezzi di Ravenna con ” La via dei precipizi”in cui il viaggio amoroso prende varie strade in una dionisiaca ebbrezza di sentimenti: sussulti di paesaggio come sussulti di cuore.
Mirna Gentilini
(Presidente Centro Studi Campaniani)
1° Premio
E’ la stessa pietra ?
Ricordi al Giogo, sulla panchina assolata le nostre promesse? Eterne si dicevano, quando eterno non è neanche il profilo dei monti. Il vento portava inquieto l’odore del bosco e indispettiva i tuoi capelli. Il soffio del vento è l’unico suono che non rompe il silenzio. Guardavamo la vallata del Mugello e la tua mano, stretta forte nella mia, faceva sì che ti vedessi anche senza guardarti. Chiamasti l’eco ma non ti rispose e ti lasciasti prendere in giro. Fu l’apparire di Venere, Vespero si diceva un tempo, che ci ricordò di incamminarci per il ritorno. Eravamo soli,abbracciati; la nostra ombra, come fosse di un corpo solo, si allungava distesa sull’arenaria.
E’ oggi la stessa pietra, dimmi, senza quell’ombra?
Rimane una traccia di te, di me, nelle sue pieghe, sui suoi granuli?
Ci sapevamo forti allora, fatti della stessa sostanza del sole; non vedevamo la nostra vita di cristallo agitarsi in mezzo alle rocce.
Ora ci resta l’angoscia, quella che assale al risveglio da un sogno, quando tutto sparisce e ci sentiamo ingannati. Nessuno ci illude quanto facciamo noi stessi, anche se lo facciamo per paura o per amore.
Non ho coraggio di tornarci al Giogo, imbattermi nelle voci di un passato finito per sempre. O peggio ancora, non trovare traccia alcuna, scoprire che lì non ci siamo mai stati, che niente esiste oggi perché niente è mai esistito, che eravamo solo un sogno, Un sogno che, se anche fosse stato mai realtà , avrebbe oggi solo la vaga consistenza di promessa infranta.
E allora mi farò di sasso. Chiuderò la mia passione nel cuore della pietra fino a farne un opale che nessuno mai scopra, e la getterò per terra al Giogo, fra cento sassi a lui fratelli, e rimarrò ad aspettarti per questa e per tutte le vite a venire.
Mi sarà compagna Vespero ogni sera.
Francesco Fattorini
2° Premio
A cera persa
Se sapessi che stringi fra le dita i germogli di me, tutto nuovo e tremante.
Sapere, non sapere. Trattieni ogni parola e rechi i tuoi silenzi alla sorgente; e resto qui, lungo le ore disattese, presso l’arco della tua fronte, rosso oro della terra e maschera antica da commedia.
E odo il palpitare di una stella appena nata, sfiorando il tuo polso di corallo rosa pallido. E il sentire diviene battito, scalpito e infine tumulto; e rinascerei cavalcando un delfino, nello scintillio fugace contro i fianchi delle tue montagne all’alba, nella profondità del mio mare che canta, profumato canta.
Se ci discioglieremo in paratassi, i piedi andando, danzando in erranza, bagnati, alzando schizzi di battigia, se i dattili saranno spade fendenti le onde in spume, se immersi in una lingua fresca d’isole incarneremo dialetti di vento, ebbene non avremo zampe né ali né branchie; vestiremo una corporeità cangiante, ma inseguiremo il tuffo negli abissi, tra colonne lambite dalle lave.
Una volta ritornati alla stabilità , trascinandoci su sabbie roventi e terre nere, di frammento in frammento ogni riconquista d’approdo sarà un dolce e inesorabile smarrirsi, disgregarsi. Ma sapremo camminare a testa alta al cospetto degli antichi, sotto le ciglia delle statue, pur sapendo di non poter ambire a completezza. E forse, al volgere dei giorni canuti, sarà proprio tale incompletezza a condurci per mano.
Che importa, che importa del bronzo, una volta che hai impresso i polpastrelli nella matrice tiepida.
Tu giaci nell’incavo profondo del mio braccio, a cera persa.
Giovanni Asmundo
3° Premio
La via dei precipizi
Se l’amore prende la via delle colline, trova arbusti a graffiare le gambe e vuole sanguinare infine.
Se incespica in rovi di rose, vuole raccoglierle a mani nude, invitando nella carne le sue spine; perché il profumo che emanano è potente, più viola del rosso della rosa, più violento dell’albero divelto.
Se l’amore non ha questa potenza, potremmo definirlo affetto, una tenerezza che non si consuma, ma poiché esso, al contrario, sradica, esso fa volare molto in alto.
Un cielo d’oro accoglie le sue fronde, strappate dal turbine affannato, dalle mani di spine appassionate. Si recidono i fili del giorno, si infrangono le soglie della notte.
Se l’amore prende la via dei precipizi, si potrà rotolare ridendo fino al punto in cui finisca il terreno, si provi l’ebbrezza del salto in un abbraccio, fissandosi negli occhi anneriti, quegli occhi spavaldi d’Appennino.
Se l’amore lo chiamiamo un viaggio, esso ci condurrà attraverso i fossi, le gallerie scavate nella roccia, nei corsi d’acqua che spingono la sete verso le erbe del tempo disumano.
Qui sosteremo urlando, dormendo e raccontando piano, sarà poi necessario ripartire, e non necessariamente insieme. Perché quel viaggio che abbiam chiamato amore conta fermate dove ci si può perdere,
e infine richiamare e sporgere, lasciandosi cadere come pazzi sapendo che l’abbraccio, giù, ci accoglie.
Se poi ci accorgeremo insieme di una forza che si spegne nel rigore, potremo vivere senza la sua spinta, in barbara sembianza vegetale, che succhia il sole ma non muove l’ombra, a distanza di vuoti, di valli e di burroni.
Da lontano sentiremo il nostro grido, e sarà tutta una corrispondenza, non più corporea né spirituale, soltanto d’ombre che, ora più di prima, si cercano ma non possono toccarsi.
E le finestre si chiudono in silenzio, marciscono le porte dei petali di rosa.
Cristiana Pezzi