Testo di Alda Magnani vincitrice del primo premio sezione A:
Il Paesaggio e la natura “in questa linea severa e musicale degli Appenninni”
Un paese e un bosco del nostro Appennino
Spingo lo sguardo oltre il sagrato della chiesa più antica di Tarsogno. Altro non vedo attorno che monti e cielo, qualche piccola casa abbarbicata lungo le pendici, fra vene nodose di radici, fitti rami di frassini e castagni. Abbandono la borgata che si stende attorno all’unica strada che attraversa il paese. I viottoli in salita che conducono al monte hanno riflessi di muschio e trasparenze di dolci chiaroscuri. La campana diffonde i suoi rintocchi fra palpiti di cuori innamorati di questa pace panica.Cerco fra i ricordi dei miei passati incontri uno sguardo, un sorriso, un volto amico. Poi entro nel bosco e rispetto il silenzio. Una rosa selvatica mi attira al limite incantato dove il sole gronda più alto chiari silenzi. La gente che emigrò lieve ritorna in sogno a questa terra odorosa di muschio, funghi e di sambuco e ricorda i tanti cestini di fragole e lamponi che raccolse in lontane stagioni.
Avanzo furtiva, spezzo i fili dei ragni che marcano i confini, sigilli tesi in ore di pazienza. Io, l’intrusa, salgo tra i primi alberi ancorati a pilastri e fondamenta a fianco della strada, carico il piede che non fa rumore sul morbido tappeto delle foglie, bisbiglio quieti passi nel silenzio. Spiccano alcuni fusti, salgono in verticale, seguendo la linea della luce, altri piegano a valle e fanno sforzo maggiore di radici.
Cerco appoggio su un sasso imbottito dei corti aghi del larice e con parole zingare racconto al bosco stesso il suo disegno. Gli parlo del fuoco sulle pietre dove ardono pigne e rami secchi. Imito il cinguettio di nidi in mezzo al verde fra stormire di fronde e frullio d’ali. Penso all’agile corsa delle lepri, dei caprioli in fuga dai cinghiali, alla vita nascosta che ferve tra i cespugli. Un gorgoglio lucente squarcia le forre e svela una sorgente sperduta. Alto nel cielo vola roteando un falco nell’aria tersa e spumeggianti nubi raccolgono profumi di ginepro. Ascolto il silenzio del bosco e trovano risposta mille domande sotto questo cielo di pure convergenze. Tutto parla di pace, anche se un vento calligrafico e bizzarro spettina la montagna e scrive una storia millenaria di partenze e ritorni, di speranze e di attese. Io unisco il mio respiro al palpito segreto della montagna. Se più non tornerò, questi luoghi d’incanto vivranno per sempre nel mio sguardo ferito dalla luce e io vivrò nell’orma impressa dal mio incedere dentro il tenero cuore di questi boschi. Sotto il cielo turchino della sera, ormai privo di luce, venato dalle scie dei colori del tramonto, ritorno sui miei passi, rigenerata. Ragnatele di seta si faranno i ricordi.
Testo di Cristina Viti vincitrice del primo premio sezione B:
“Immagini di città evocate nei Canti Orfici”
Pomeriggio montevideano
Aria salmastra di antica foce, fredda passacaglia di una dura pioggerella di primavera, i suoi passi come quelli di un bambino sospeso tra l’allegria dell’avventura e la nostalgia insanabile di un grembo dolce greve di oscura luce. Vaga ma precisa, leggera ma decisa insiste nel perdersi per poter inventare una strada che possa nutrire di salutare spavento il suo sogno di un viaggio senza fine. Ecco che piano vince l’incertezza e con destrezza di danza si avvia, il suo corpo di rabdomante abbandonato al profumo acuto della pioggia: ecco che si lascia indietro il Buceo con le sue barche e le sue palme affondate nella sabbia e si addentra nella città vecchia passando dagli angoli che ancora portano gli echi di una milonga di quartiere nella scorsa mattina domenicale di primo sole pallido, dalle tristi tettoie dove riposano ancora aggiogati i muli che anche oggi in questa città trainano carretti di merci e gente verso l’odore di cuoio e frutta e sale dei mercati senza tempo, dalle baracche con le loro incongrue scalette di bianca pietra squadrata posate su mucchi di immondezza compressa, con i loro tetti dove qualche bandiera mischia il suo azzurro sbiadito al grigio iridato del cielo: dimmi, le chiedo,sei forse in cerca delle vecchie case dei poeti, delle loro voci che ancora giocano tra i muri screpolati: cerchi forse un’eco della feroce ironia di cui muore Lautréamont, o una qualche riga di fiaba scritta da un bambino già poeta tra le pagine di un registro della banca Supervielle? O forse ti affretti sorridendo credendo di sentire nella pioggia il pianoforte del grande Becho? Io ti guardo passare, seguo con la mente la scia blu del tuo vestito, sento che le tue strade si confondono coi labirinti del mio sogno di cui nulla sanno i miei dolci ospiti che ora con la loro innata cortesia, con la loro profonda intelligenza operaia e contadina, col gioioso assetto del loro passo vivace e nel contempo sommesso si avvicinano a chiamarmi per l’inizio della nostra serata. E io mi alzo e sorrido e gentile li seguo, ma mi brucia nei nervi un’ansia senza nome, come quando spiove in un pomeriggio di primavera e da un cortile di città si sente cantare né triste né allegro un merlo, come quando entrando in una stazione si vorrebbe trovare ogni partenza annullata per poter seguire a occhi chiusi il filo rosso di un enigma annodato da Lei.